DANZA INDIANA

LA DANZA

La danza, come la musica e il canto, è una delle forme espressive che nella cultura dell’India sono considerate non solo forme artistiche ma raffinati linguaggi spirituali.
La parola ‘danza’ male si presta a rispecchiare la complessa realtà coreutica indiana, in cui appunto la dicotomia occidentale tra il teatro e la danza, si assottiglia enormemente.

Nel campo delle arti performative la danza indiana occupa una posizione molto speciale.
In essa vi è la combinazione di movimenti del corpo, delle mani, di espressioni del volto e degli occhi con un accompagnamento musicale che esalta il tema che la danza vuole descrivere; un tema che può avere un carattere religioso, mitologico, leggendario o tratto dalla letteratura classica.
I termini sanscriti con cui ci si riferisce alla danza confermano tale affermazione. Essa è suddivisa, infatti, in tre categorie: natyanrtta e nrtya.
Nel dramma e quindi nella danza classica indiana la preoccupazione non è tanto rivolta all’esatta imitazione del reale; piuttosto si osserva il desiderio di suscitare emozioni capaci di stimolare l’immaginazione dello spettatore. È questa l’idea dell’abhinaya. Questo termine spesso tradotto con ‘arte istrionica’ è spiegato da un verso del Natyashastra in cui si legge: “Quando la rappresentazione dei deva (dèi), dei daitya (demoni), dei re, dei capofamiglia e delle loro attività quotidiane è espressa attraverso i gesti del corpo e tutto ciò che è a essi correlato, si ha il natya ” (Natyashastra, I,121).
Sia l’artista sia lo spettatore hanno una parte attiva nel conseguimento del fine dell’opera d’arte: il godimento estetico, il rasa. La profonda relazione tra l’attore-danzatore e lo spettatore impone che entrambi posseggano qualità specifiche; inoltre è in tale legame che si cela il nocciolo della teoria estetica: l’idea di bhava e rasaBhava viene generalmente tradotto con ‘emozione’ mentre rasa con ‘sentimento’ o con ‘gusto’.
La danza indiana è un’arte basata sulla trasmissione orale del sapere e quindi sulla stretta relazione tra il maestro e il discepolo.
Nella cultura tradizionale indiana si osserva un certo disinteresse nei confronti dell’identità degli artisti o rispetto al tentativo di collocare gli eventi storicamente.
In questa luce tracciare la storia esatta della danza non è quindi sempre facile.

danza indiana
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STORIA DELLA DANZA INDIANA

In India tutte le forme d’arte hanno delle origini sacre.
Nelle scritture si legge, infatti, che la danza nasce direttamente da Shiva Nataraja, il Signore dei danzatori. Egli, con la sua danza, crea tutto l’universo.
I riferimenti alla danza si incontrano a partire da tempi antichissimi sia nella letteratura sia nell’arte figurativa.
La danza ha svolto un ruolo centrale in gran parte della letteratura vedica e sanscrita classica, nonché nell’epica e nei purana.
Quando una danzatrice danza una distinta tradizione letteraria e religiosa prende vita: essa esprime tramite il movimento del suo corpo, ciò che uno scrittore vuole descrivere attraverso le parole.
Molti sono i poeti che si sono ispirati alla danza per comunicare immagini di bellezza e di armonia.
Il più antico testo di drammaturgia è il Natyashastra. In questo trattato il suo autore, il saggio Bharata, informa che la scienza del natya gli fu rivelata da Brahma, il creatore. Egli, in uno stato di profonda meditazione, riunì la saggezza di tutti e quattro i veda e creò il Natya veda, anche conosciuto come quinto veda.
La danza, in quanto intima attività dell’uomo, ne ha accompagnato la vita fin dagli albori della civiltà. Con il passaggio a una società più organizzata e matura tuttavia il legame tra la danza e la religione si rinforzò. Da un lato la danza acquisì significati divini molto importanti e dall’altro un ruolo sociale ben preciso. Essa venne inserita molto presto nelle pratiche religiose e considerata una delle forme più alte di adorazione della divinità. Nelle religioni indiane, quindi nell’Induismo, nel Buddhismo, nel Jainismo e nel Sikhismo, sia la musica sia la danza hanno svolto un ruolo fondamentale nell’esteriorizzazione della devozione.
La mitologia indiana testimonia che la danza è un’attività divina che le divinità amano ammirare e a cui partecipano con trasporto. Un passo del Vishnudharmottarapurana afferma a tale proposito:
“Quando qualcuno danza questo è considerato un atto rituale di adorazione della divinità; gli dei sono compiaciuti di tale atto più delle offerte di fiori e delle oblazioni.
Colui che adora dio con nritya ottiene la realizzazione di tutti i desideri e il sentiero del moksa.”
La danza classica indiana (margi) è cresciuta e si è sviluppata in una rigorosa disciplina sia fisica sia intellettuale e possiede molte forme e stili sparsi in tutto il continente.
Accanto alle forme classiche della danza si hanno quelle popolari (deshi). Queste danze popolari sono antichissime e rappresentano una pratica ampiamente diffusa ancora oggi negli ambienti rurali e nelle comunità agricole durante le celebrazioni festive. Un tempo queste due forme di danza erano probabilmente un’unica realtà. Nel corso dei secoli alcune danze divennero parte della religione e acquistarono una rigida codificazione, gettando così i semi dei successivi stili di danza classica indiana: bharatanatyamkathakaliodissikuchipudikathakmanipuri.
Si suppone che a partire dall’epoca Gupta (IV-VI secolo d.C.) si avvii quel processo che trasformerà il tempio nel fulcro della vita religiosa, sociale, artistica ed economica indiana. In tale processo la danza ebbe un ruolo fondamentale nella figura delle devadasi, o schiave della divinità.
Il carattere divino della danza e della musica è inoltre testimoniato dalle arti figurative. Tra gli esempi più antichi si collocano alcuni dipinti murali, la danzatrice di Mohenjodaro e il torso acefalo rinvenuto a Harappa. La massima fioritura delle sculture rappresentate in posa di danza si avrà, a ogni modo, tra il settimo e il dodicesimo secolo in cui immagini di divinità danzanti, esseri umani, e semidivini che danzano vengono rappresentate sulle pareti sia interne sia esterne del tempio hindu. A questa prolificità di raffigurazioni corrispose un’altrettanto abbondante letteratura religiosa, promotrice di storie e miti relativi a diverse divinità.
Pari diffusione ebbe la creazione di immagini tridimensionali di cui l’esempio massimo è l’immagine di Shiva Nataraja. Questa raffigurazione del dio Shiva danzante può essere definita uno dei simboli sublimi della raffinatezza e della profondità del pensiero hindu.
Lo stile rintracciabile nelle pose delle divinità danzanti potrebbe corrispondere a quello impiegato dalla danzatrice e dal danzatore all’interno del tempio. I rilievi sulle pareti, se letti in questa luce, diventano pari a un libro scolpito che fa da modello per il danzatore e le sculture uno specchio fedele della vita che si svolgeva nel tempio. Questa sarebbe un’ulteriore dimostrazione del fatto che la danza era una parte integrante della pratica rituale anche se non era limitata solo a questo campo. Le danzatrici erano, infatti, invitate anche nelle corti per intrattenere sovrani e nobili. Questa funzione della danza si diffuse soprattutto nel tardo periodo medievale quando con l’arrivo dei musulmani divenne molto difficile danzare nei templi a nord.
La situazione nel sud dell’India fu comunque diversa da quella del settentrione. La penetrazione musulmana nel sud fu, infatti, di minore portata almeno fino a un certo periodo; un fattore che favorì lo sbocciare delle città tempio e del mecenatismo reale soprattutto sotto i sovrani Chola.
L’opera dei musulmani al nord e l’arrivo degli inglesi accelerarono il processo di trasformazione che coinvolse la danza.

STILI DI DANZA CLASSICA INDIANA

…nel corso dei secoli alcune danze divennero parte della religione e acquistarono una rigida codificazione, gettando così i semi dei successivi stili di danza classica indiana:

La prima si riferisce alla rappresentazione drammatica in cui la danza gioca in ogni caso un ruolo molto importante; la seconda è solitamente tradotta con ‘danza pura’; in questo aspetto della danza si esalta l’estetica del movimento e della forma mentre il corpo non racconta alcun tema; la terza si riferisce invece all’interpretazione danzata di un poema o di un’opera letteraria espressi in canzone. Ne consegue un’armonica miscela di danza, musica e recitazione. La danza indiana impiega il corpo come strumento principale di espressione. L’attore-danzatore è chiamato a rispettare regole codificate molto precise, relative non solo allo spostamento nello spazio ma anche alla capacità di raggiungere una qualità scultorea di fissità, raramente ricercata nelle danze occidentali. Nella danza pura si osserva, infatti, un alternarsi di movimenti accompagnati da un ritmo a pose statiche. In essa è posta un’attenzione quasi ossessiva alla precisione delle linee che devono essere descritte con il corpo. Esso diventa una sorta di pennello con cui la danzatrice dipinge dei disegni ben precisi, forniti di ricchi significati spirituali.
Nella porzione di danza drammatica il corpo dell’attrice-danzatrice si trasforma invece in un elaborato alfabeto di simboli, in grado di narrare storie, di interpretare liriche, comunicare emozioni, immagini e pensieri.

BHARATHANATYAM

Il Bharatanatyam è con molta probabilità uno degli stili più antichi di danza classica indiana.
La sua antichità è documentata dalla letteratura, dalla scultura, dalla pittura e dalla storia delle varie dinastie che si sono succedute in India.
Il ‘Bharatanatyam’ è tradizionalmente associato a uno dei testi portanti, fondamentali della danza e del teatro indiani: il Natya-Shastra ascritto al saggio Bharata muni.

Si ritiene che il Bharatanatyam sia ‘nato’ nel sud dell’India diffondendosi, nel corso degli anni principalmente in Tamil Nadu.
È difficile, nonostante l’abbondanza di dati esistenti, tracciare una storia verosimile dei circa 2000 anni che questa danza ha percorso.

La peculiarità del Bharatanatyam è quella di concepire il movimento nello spazio principalmente lungo linee rette o in triangoli; viene data importanza precipua alla precisione delle linee e alla nitidezza delle forme.

Si potrebbe affermare che nel Bharatanatyam prevalgono movimenti angolari e simmetrici, si ricerca la geometria perfetta nata dalla poesia e composta da bhava, raga e tala.
La musica, ingrediente fondamentale, è quella del sud, karnatica.

 

KATHAKALI

Il Kathakali rappresenta uno degli stili più interessanti e complessi in cui la danza pura il teatro e la musica lavorano all’unisono. Il moderno Kathakali è la sintesi della maggior parte delle forme teatrali del sud dell’India. Ciò che spicca in questo stile è infatti la qualità drammatica raggiunta attraverso l’attento utilizzo di tutte le parti del corpo; il movimento dei muscoli facciali è l’aspetto principale della disciplina. Si può affermare che le figure geometriche base del Kathakali sono il quadrato e il rettangolo; all’interno di queste figure tuttavia il danzatore può tracciare diagonali o disegnare degli 8 con le mani.

È credenza comune che durante una rappresentazione di Kathakali, dèi ed eroi, demoni e spiriti giungano sul palco direttamente da altre dimensioni. Ciascuno di loro ha un trucco, un costume e un copricapo conformi alla sua indole. I personaggi o forse è meglio parlare di tipi, nel Kathakali si dividono in tre ampie classi che rispecchiano la loro qualità dominante che può essere: sattvica (virtuosa, spirituale); rajasika (tesa al possesso, feroce) e tamasika (oscura, di tipo basso).
I personaggi appartengono esclusivamente al mondo del mito e della leggenda.
Il Kathakali ha assorbito le grandi tradizioni di danze che sono esistite fin da tempi remoti nella sua patria, il Kerala.

 

ODISSI

Sulla base delle testimonianze archeologiche, l’Odissi od Orissi come è anche chiamata, risulterebbe essere la forma più antica di danza classica indiana. I reperti archeologici che sostengono questa tesi si trovano nella grotta, Rani Gumpha, datata al II secolo a.C. circa.

La flessione del fianco e la tipica posa tribhanga è comune alla maggior parte di queste figure.
La tecnica dell’odissi segue i principi esposti sia nel Natyashastra sia nei Shilpashastra dell’Orissa.
Nell’Odissi il corpo umano è studiato in termini di tre inclinazioni possibili. Il peso del corpo non è distribuito in modo equo rispetto all’asse mediana ma passa continuamente da un piede all’altro.
Come negli altri stili, la testa, il torso, il bacino e le ginocchia rappresentano unità di movimento importanti. Una peculiarità esclusiva di questo stile e dello stile Kuchipudi, è il movimento del bacino.

 

KUCHIPUDI

Il Kuchipudi nasce come una forma di teatro-danza in un paese omonimo, in Andra Pradesh.
La tradizione vuole che circa cinquecento anni fa un gruppo di bramini del villaggio di Kuchipudi si riunissero per dare vita a questa tradizione artistica. A quel tempo esistevano molti tipi di danze popolari ma quando la corrente vaishnava si diffuse, gli insegnanti di danza composero delle coreografie ispirate agli episodi del Bhagavata-purana creando una forma di teatro-danza che avrebbe preso il nome di Kuchipudi.

Il Kuchipudi si diffonde maggiormente come danza per il popolo e come mezzo di sostentamento degli artisti. In origine esistevano gruppi di artisti, rigorosamente uomini, infatti questa danza era preclusa alle donne, che erano soliti girare per le corti dei re e per i villaggi circostanti a presentare la loro arte. Questi artisti erano mossi da un profondo sentimento religioso che avevano il compito di trasmettere alla gente comune attraverso la danza.
In questo stile si sottolinea in modo particolare la compresenza degli aspetti tandava e lasya della danza.

KATHAK

È una danza del nord dell’India.
Il lavoro dei piedi è centrale. I movimenti sono direttamente influenzati dai cicli metrici, tala, sulla base dei quali si devono eseguire le variazioni ritmiche.
Il corpo del danzatore nel Kathak si mantiene nell’asse centrale, mediana; sono caratteristici i salti e piroette ma lo spazio è concepito soprattutto fronte e retro e anche quando si eseguono queste piroette, la danzatrice o il danzatore mantengono una certa linearità, senza flessioni o spostamenti eccessivi.
La musica è hindustani. I due stili che si cantano prevalentemente nel Kathak sono il kirtan e il dhrupad. Sono presenti anche padabhajanhori e dhamar. Di derivazione mussulmana gli stili thumridadra e ghazal, sono anch’essi presenti nel Kathak.

 

MANIPURI

Il Manipur è un piccolo stato nord-orientale situato tra le montagne; il picco più alto è il monte Kobru che fa parte della catena himalayana. Qui vive una popolazione chiamata Meithei.
Il fatto che il Manipur sia uno stato di confine spiega perché la popolazione sia composta da diverse etnie e, la religione, l’arte e la cultura siano una miscela di elementi distinti.
La danza e la musica sono parte della routine quotidiana della gente che la ritiene come un’offerta alla divinità.
La danza tandava e lasya sono molto distinte, la prima praticata dagli uomini prevede salti e rotazioni in aria accompagnate dal suono delle percussioni che lo stesso danzatore suona; la parte lasya, danzata dalle donne comprende movimenti sinuosi e spiraliformi, indistinti e ondulati. Molte le danze ispirate ai kirtan cantati nello stile della musica del nord, hindustani.

NATYA

La parola ‘natya’ che, come si è visto, è usata soprattutto con riferimento all’arte drammatica deriva dalla radice sanscrita nrt che significa ‘danzare’. Da natya nasce inoltre il termine nata con cui si intende comunemente l’attore ma che mantiene il significato primario di ‘danzatore’. Questo potrebbe suggerire che gli antichi drammi indiani fossero principalmente danzati e che in essi il ritmo e la poesia giocassero un ruolo fondamentale rispetto all’azione. Ciò venne ribadito anche da Rabindranath Tagore che riferendosi a essi scrisse: “our very word for dramas or play, nataka show that dance was its essential feature.
Accanto al termine ‘natya’ si incontrano spesso dei sinonimi evocativi della vera natura del dramma indiano; essi sono rupakadrsyakavya o preksakavya. La parola rupa con cui si definisce qualcosa avente forma, è presa dal mondo della letteratura dove è impiegata per designare una figura retorica, la metafora. Ciò avviene perché anche nel dramma si stabilisce uno stato di non differenza tra il personaggio e l’attore chiamato a rappresentarlo. drsyakavya esprime invece l’idea di un poema che viene ammirato anziché letto. Da questi titoli sembra mancare il riferimento all’azione, nell’accezione del termine propria del contesto teatrale occidentale.
I comportamenti e le azioni delle persone colte nelle situazioni più diverse è la materia del natya. In esso sono ritratti il dovere, la pace, il riso, la guerra, l’amore e l’odio. Tutto questo ha il fine di incoraggiare e donare saggi consigli. Ma il natya ha anche un compito molto importante che consiste nell’aiutare gli esseri umani a conseguire i quattro scopi della vita: l’osservanza delle leggi, l’ottenimento dei giusti mezzi, il piacere, la liberazione dai vincoli dell’ignoranza.
Lo zelo nello studio dell’arte di comunicare presente nei trattati risponde in prima istanza a una elaborata teoria estetica da cui traggono origine la maggior parte delle arti in India.
Tale teoria si fonda sul presupposto che l’arte è soprattutto un’esperienza cooperativa in cui intervengono più interlocutori. L’analisi del termine abhinaya lo dimostra; esso è composto, infatti, dal prefisso abhi (verso) e dalla radice ni (condurre); dalla loro unione si ha quindi il significato di “condurre l’esecuzione di un dramma alla comprensione da parte dello spettatore” (Natyashastra, III, 6).
Sia l’artista sia lo spettatore hanno una parte attiva nel conseguimento del fine dell’opera d’arte: il godimento estetico, il rasa. L’idea di rasa nel tempo è stata oggetto di due studi distinti: da un lato è diventata il perno della speculazione filosofica da parte di molte scuole di pensiero religioso e dall’altro è stata studiata come tecnica di esecuzione artistica.

NRTTA

La danza indiana segue le leggi del movimento del corpo umano.
Essa possiede qualità scultoree, difficilmente rintracciabili nelle danze occidentali. In essa, il moto e la stasi sono due aspetti complementari. Ciò è particolarmente evidente nella danza pura, nrtta, in cui si richiede al corpo di eseguire complessi virtuosismi, a velocità ritmiche molto sostenute per poi passare con estrema fluidità ad una posa statica, in cui è indispensabile un equilibrio perfetto. La danza classica indiana è, infatti, un compendio di pose stilizzate e simboliche da assumere all’interno di un ciclo ritmico specifico.

NRTYA

Si definisce nrtya quel ramo della danza in cui convergono la gestualità delle mani, dei piedi e del corpo, le espressioni e le idee sintonizzate con una particolare emozione, bhava, in una melodia data, con un sentimento proprio, rasa, con il giusto ritmo, tala e battito, laya.
L’aspetto nrtya della danza può essere considerato la fusione di nrtta e dell’abhinaya, proprio del natya. In essa l’abhinaya è il tratto centrale.

NRTYA

Si definisce nrtya quel ramo della danza in cui convergono la gestualità delle mani, dei piedi e del corpo, le espressioni e le idee sintonizzate con una particolare emozione, bhava, in una melodia data, con un sentimento proprio, rasa, con il giusto ritmo, tala e battito, laya.
L’aspetto nrtya della danza può essere considerato la fusione di nrtta e dell’abhinaya, proprio del natya. In essa l’abhinaya è il tratto centrale.

BHAVA E RASA

Lo scopo dell’arte in India non consiste nella bellezza in sé ma nell’abilità di evocare gli stati più elevati dell’essere. L’arte utilizza la materia, nel senso più ampio del termine, per poi trascenderla; la peculiarità della danza, come della scultura è l’uso del corpo; tuttavia il loro scopo comune è quello di creare la sensazione che la danza o la bellezza siano al di là di esso. Nella scultura indiana per esempio non si pone un accento eccessivo sulla raffigurazione anatomica del corpo e quindi sulla muscolatura come avviene nell’arte greca, ma si dà maggiore enfasi all’armonia della posa, in modo tale che l’attenzione dello spettatore non si arresti alla mera fisicità ma colga il messaggio di una verità sottile che si cela dietro l’immagine stessa.
La profonda relazione tra l’attore-danzatore e lo spettatore impone che entrambi posseggano qualità specifiche; inoltre è in tale legame che si cela il nocciolo della teoria estetica: l’idea di bhava e rasa.
La storia delle varie forme di danza in India rappresenta, infatti, un documento prezioso del tentativo di dare espressione a uno o a diversi bhava in modi molteplici.
Il rasa e il bhava si possono ritenere come due fratelli siamesi: l’uno senza l’altro non avrebbe esistenza sensibile. Il rasa senza bhava non potrebbe essere generato e viceversa se il bhava non promuove il rasa corrispondente è praticamente nullo.

In sintesi: il tema da rappresentare offre all’artista un’ispirazione che si esprime principalmente con un’emozione (bhava). Il desiderio irrefrenabile di comunicarla all’esterno induce l’attore a convogliare tutti quei fattori che amplificano e sostengono tale emozione. Questi fattori sono noti come vibhava e anubhava. Vibhavaè ciò che nutre le diverse emozioni quindi fornisce, per fare un esempio, il contesto ideale all’emozione da trasmettere. Anubhava raggruppa invece tutti i mezzi impiegati dall’attore per esprimere l’emozione. Questi possono consistere di gesti, di parole, di costume o trucco ecc.

L’attore-danzatore deve far risuonare nella mente e nel cuore dello spettatore le corde del sentimento prescelto, per esempio l’amore. Nello spettatore, accarezzato da questa passione ideale, scaturirà allora una profonda gioia e il sentimento corrispondente noto come rasa.
Il tentativo di suscitare rasa avrà successo solo se l’artista sarà in grado di vivere intimamente ciò che deve esprimere e se lo spettatore sarà altamente ricettivo, sensibile e in grado di fondersi con il soggetto rappresentato.

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NATYASHASTRA

Il Natyashastra attribuito al mitico Bharata è una delle maggiori fonti sulla rappresentazione teatrale e sulla danza. È in lingua sanscrita. Si presenta nella forma di apprendimento tradizionale in cui lo studente seduto ai piedi del suo maestro ne riceveva l’insegnamento. Le informazioni contenute in esso sono vastissime e spaziano in molti campi del sapere. A questo trattato è assegnata una posizione d’onore accanto ai Veda. Esso è conosciuto anche come il quinto Veda o Natyaveda e in quanto tale venerato e rispettato poiché aiuta l’uomo a sviluppare le qualità più nobili.
Il termine natya qui non è usato solo per indicare la rappresentazione teatrale e la danza ma anche tutte le attività incluse nel teatro quindi le prescrizioni di scena, la danza la musica, l’estetica, la dialettologia, il costume, il trucco ecc.
La sua importanza non consiste nell’essere il primo trattato sull’argomento (esistono infatti riferimenti a queste arti in testi anteriori a esso) ma nel fatto di essere il primo a donare a queste arti una codificazione e a fissarne la forma.
Senza voler entrare nelle accese controversie relative alla nascita della danza e quindi se essa emerse dal teatro o viceversa, è sufficiente osservare che queste due forme artistiche si svilupparono parallelamente, integrandosi l’una nell’altra.
Nel testo è Bharata stesso che espone una storia in cui si narra la nascita della danza e del dramma, la loro pratica, gli effetti e l’impiego. La storia racconta che tanto tempo fa i grandi saggi Atri e altri, dotati di autocontrollo e saggezza, visitarono l’eremitaggio di Bharatamuni, esperto nella drammaturgia.
Il saggio Bharata avendo finito le sue austerità e meditazioni quotidiane, era seduto sotto un albero circondato dai suoi discepoli, sua stessa progenie. Lì, accolse rispettosamente i suoi ospiti, offrendo loro come di rito, dell’acqua per rinfrescare le loro mani e i loro piedi, della mistura di latte, frutta e miele come ristoro; quindi i saggi chiesero al sommo Bharata di svelare loro l’essenza del Natyaveda avendo egli ricevuto tale sapienza direttamente da Brahma, il Creatore.
Il primo capitolo di quest’opera prosegue narrando che giunta l’era treta, gli uomini iniziarono a essere vittime di lussuria e avidità, a impegnarsi in attività e rituali degradanti, a essere dominati dalle passioni e dalla gelosia, soggetti alla gioia e al dolore. Gli dei dunque capeggiati da Indra si rivolsero a Brahma con la richiesta di creare un quinto Veda in grado di guarire i suddetti mali e di recare diletto sia agli occhi sia alle orecchie di tutti gli uomini, senza distinzione di casta; un Veda quindi che a differenza degli altri quattro fosse accessibile anche agli shudra.
Accolta la richiesta degli dei il sommo Brahma meditò profondamente sull’essenza dei quattro veda e da una loro sintesi elaborò il Natyaveda.

Il sommo Essere Brahma così rifletté: “Devo comporre un quinto veda, intitolato il Natyaveda, in armonia con le leggende (itihasa) che condurrà al rispetto delle leggi (dharma), al conseguimento delle ricchezze (artha) e del piacere (kama); sarà una collezione di massime e saggi consigli; servirà come guida per tutte le azioni delle generazioni future; sarà arricchito con gli insegnamenti di tutti i trattati autorevoli (shastra) e presenterà ogni tipo di arte e mestiere.
() Prese la recitazione (pathyam) dal Rigveda, il canto (gitam) dal Sama; la gestualità teatrale (abhinaya) dallo Yajurveda e il sentimento (rasa) dall’Atharvaveda. Fu così creato il Natyaveda, connesso con i veda e gli Upaveda, dal Dio Brahma che è onniscente” (Natyashastra, I, 14-18).

Quando il “quinto veda” fu compiuto, Brahma incaricò Devendra di diffondere questa sapienza alle altre divinità e agli uomini. La sua formulazione risultò però di difficile comprensione e così Devendra convocò il saggio Bharata e lo incaricò di trasmettere questa sapienza in forma semplificata, a tutta l’umanità.
La tradizione vuole che Bharata Muni racchiuse la monumentale sapienza in 3600 shloka o versetti in un voluminoso trattato, il Natyashastra e lo trasmise alle future generazioni.
Questa teoria dell’origine non può certo avere pretese di storicità tuttavia lascia supporre che potesse trovare formulazione solo in una società in cui la danza e il dramma godevano di un grande prestigio. Il nome Bharata si incontra già in testi del periodo vedico tuttavia non essendo citato in nessun altro testo e non essendoci chiari riferimenti all’autore del Natyaveda, non è possibile stabilirne una precisa identità storica. L’identità di Bharata è, infatti, avvolta nel mistero ed è materia di studio da parte di molti storici indiani. Bharata è il nome dell’eroe eponimo dell’India e dell’autore del Natyashastra; dal suo nome potrebbe derivare il termine bharata per indicare l’attore. In questa chiave di lettura, il Natyashastra risulterebbe essere una guida alle attività di un bharata, di un attore e quindi chiamato Bharatashastra. Successivamente però questo elaborato assunse il significato di shastra trasmesso da Bharata. Il primo a riferirsi a Bharata Muni come autore del Natyashastra sembra essere tuttavia il drammaturgo Bhavabhuti.
La datazione resta a ogni modo oggetto di dibattiti e sono numerose le date proposte.
L’ipotesi più accreditata è tuttavia quella secondo cui il trattato sarebbe il frutto di diversi autori e sarebbe stato composto in un lasso di tempo molto ampio raggiungendo la stesura attuale all’incirca all’epoca di Bhamaha (IV-V secolo d.C.) e Dandin (fine VII- inizi dell’VIII secolo) o forse anche prima; le parti più antiche potrebbero risalire, infatti, al I secolo d.C. Altri studiosi come ad esempio M. Gosh propongono delle date ancora anteriori fino al 500 a.C., H.P. Shastri lo colloca nel II secolo d.C. Insomma nell’impossibilità di stabilirne una data esatta si accetta un lasso di tempo che va dal I secolo d.C. al VII-VIII.
Dall’VIII secolo in avanti nacquero numerosi commenti a questo testo. Tra questi meritano menzione: Udbhata (VII-VIII secolo); Lollata (metà dell’VIII secolo); Shankuka (813 d.C.) Kirtidhara (IX o X secolo), Abhinavagupta (XI secolo) e altri ancora.
Riconoscendo al dramma delle origini divine, Bharatamuni gli forniva un retroscena non solo religioso ma anche letterario sia per la tecnica sia per la teoria mostrandone allo stesso tempo gli scopi estetici e secolari. Questo profondo legame che la danza intesse con la letteratura, con la religione e con la mitologia costituisce, tra gli altri aspetti, un prezioso aiuto anche nel tentativo di tracciare un profilo storico di quest’arte. La danza classica indiana sarebbe solo una tecnica fredda se non possedesse quella ricca letteratura che è ne alla base. La letteratura è ciò che la rende pregna di significati nobili e che, insieme alla gestualità del corpo e alla musica, ne rappresenta l’anima.
‘Quando una danzatrice danza una distinta tradizione letteraria e religiosa prende vita: essa esprime tramite il movimento del suo corpo, ciò che uno scrittore vuole descrivere attraverso le parole e la poesia.’